giovedì 28 aprile 2016

Lente operazioni di distacco

Anche la fine inizia in qualche modo.
Si avviano, dapprima ad un livello molto inconscio, poi in maniera sempre più evidente, lente operazioni di distacco.
Una parola in meno, un passo indietro, sorrisi sempre più radi.
E' come un allenamento: se ne fa un pezzetto al giorno.
E' lento ancor più del costruire questo togliere i mattoni uno ad uno.
Ma è necessario alla sopravvivenza.
Si potrebbe essere più drastici: correre con dell'esplosivo e far saltare in aria tutto con un grande boato.
Ma il rischio è che la polvere e l'odore di bruciato ti restino addosso per sempre.
Chi conosce il fuoco lo sa: lascia segni indelebili.
Oppure si potrebbe usare una di quelle grosse palle attaccate ad una gru.
Ma lascerebbe a terra una montagna di briciole, e anche con quella finiresti con il dover fare i conti.
Abbiamo bisogno di tempi lunghi.
Di respirare con lentezza.
Di riappropiarci della velocità del nostro cuore.
Ho scoperto che nel Medioevo non si demoliva nulla, si decostruiva, si manteneva il buono e si riutilizzava il resto.
Hanno cominciato a Parigi, maledetta, sempre lei, con questa moda di far saltare tutto in aria. Distrutto, polverizzato, dimenticato.
Eppure in ogni fibra del nostro corpo, dentro i muscoli, fra le vene, si annida il passato.
Da qualche parte nello stomaco c'è quella cena di compleanno, sotto i polpastrelli brandelli di carezze, tra l'incudine e il martello suona una canzone...
Non hanno ancora inventato una chemioterapia davvero selettiva, quindi qualsiasi attacco chimico rischia di sortire effetti peggiori del male.
E allora conviene fare così, con gesti lenti, gentili.
Lasciarsi le mani, cambiare strada, evitare gli occhi.
Poi un mattino ti alzi e il passato è sepolto sotto una coltre di neve. Si scioglierà, lo sai. Ma nel frattempo ha gelato tutto.
E tu puoi tornare a respirare.







venerdì 1 aprile 2016

Trappole per zanzare

Queste piccole trappole
Sono un esercizio di stile
Destinato a fallire nel momento in cui inizia
Come quasi tutte le cose degli uomini
Che tanto va bene lo stesso
Passatempi che dissetano a gocce un vuoto
Che è così voragine
Che nessun paracadute
Abbastanza grande
Mai
Potrebbe salvare
Ma poi guardi alla finestra
E in fondo è solo un giorno di pioggia
Fra un mese
Sarà passato
E tornerà, per lungo tempo
L'Estate.

giovedì 25 febbraio 2016

"Noi siamo qualcosa che questo stato riconosce". Quando il poco è comunque meglio di niente.

E quindi niente...ero arrabbiata e incattivita, volevo che cose molto brutte accadessero ad un sacco di gente seduta fra gli scranni di Palazzo Madama. Spremevo delle arance.
Poi mi sono fermata qualche secondo.
E mi sono messa a piangere.
Un po' era rabbia.
Ma un po' era commozione.
Perché da oggi anche in questo schifo di Paese chiunque pensi di voler condividere la sua vita con la persona che ama potrà apporre il proprio cognome al suo, potrà lasciare a lei la propria eredità e pensione, entrare insieme in un ospedale a testa alta.
Potrà dire "Noi siamo qualcosa che questo stato riconosce".
E' questo io credo sia qualcosa.
Qualcosa è molto poco, e sicuramente non è abbastanza.
Ma è qualcosa.
Oggi in questo schifo di Paese noi abbiamo assistito ad una delle più brutte pagine di politica. Abbiamo assistito alla prostituzione dei diritti sacrificati sull'altare di accordi degni della peggiore associazione a delinquere, abbiamo assistito all'incapacità di un Premier e di un governo che nessuno ha mai scelto di fare una riforma necessaria o anche solo di capire quali potessero essere i limiti accettabili da quel porcile che è il nostro Parlamento ed evitare di conseguenza una figura di merda colossale, abbiamo compreso appieno l'inconsistenza umana ancora prima che politica di chi dovrebbe guidare il nostro Stato, abbiamo scoperto una volta di più quanto piccoli e ignoranti possano essere gli uomini.
Eppure nonostante questo io mi sono commossa.
Ho tanta paura che questa breccia non aprirà ancora per molto tempo un varco.
Eppure io credo agli uomini.
E so che quando insinui una possibilità nella testa del persone stai aprendo nuove strade.
Questa legge è poca cosa, ma ha il merito di cominciare ad insinuare alcune possibilità.
Quella che per stare insieme il requisito sufficiente sia l'amore, e non il genere.
Quella che per stare insieme non sia necessario sposarsi.
Quella, e concedetemelo, perché è una delle cose che mi è più cara, che per stare insieme la fedeltà fisica sia un requisito legato alla volontà propria e non della legge.
Io voglio molto di più.
Io voglio che chiunque si ami possa fare un matrimonio, civile e anche religioso.
Io voglio che chiunque sia in grado di dare amore possa adottare un figlio, che sia sposato, single o perfino disabile.
Io voglio poter donare un ovulo a chi vuole un figlio più di me, o un utero, perfino.
Io voglio che nessuno mi chieda mai più se sono un maschio o una femmina e in base a questo definisca con cosa devo giocare, come mi devo vestire, quale bagno devo usare.
Oh, sì. Io voglio un sacco di cose.
Perché amo i diritti e amo la libertà, e credo che anche uno Stato dovrebbe farlo.
Prima o dopo avremo tutto questo, ne sono certa.
Oggi abbiamo solo questa piccola legge tutta zoppa e piena di cerotti, che è comunque qualcosa più del nulla che avevamo fino a ieri.



martedì 16 febbraio 2016

Come un’onda nel tempo...recensione.

Ho letto una cosa bella.
E vorrei parlarvene...
L'autore è Luca Meloni e io lo amo perché è un essere umano di un'intelligenza straordinaria...
Ed è un Poeta. Vero vero.
La sua raccolta "Come un'onda nel tempo" è una specie di pugno allo stomaco, ma di quelli che fanno bene.
Perché se tempo che passa è uno spettro logorante che costringe a fare i calcoli con la propria storia, è possibile mettere un punto e andare a capo nella speranza che quello che siamo stati ci offra una qualche forma di insegnamento per un futuro che, per natura, auspichiamo migliore?
Segno massimo della fine è il principio.
Luca Meloni non cerca e non offre risposte consolatorie. Ma prova, con forza, a mettere quel punto. E lo fa attraverso un’arte eterna: la poesia.
Una poesia che si fa racconto, in un susseguirsi di frammenti e microstorie che creano un corpus dolente che deve essere letto nel suo divenire e nella sua interezza per cogliere, appieno, quello che l’autore sottende: per diventare terra straniera il passato deve essere rivissuto, masticato, stanato in ogni luogo abbia cercato di nascondersi, in una caccia precisa perché ora è il risultato esatto di tutti i prima, e per andare avanti è necessario chiudere tutti i conti, nessuno escluso, e poco importa quanto male possa fare.
Come un’onda nel tempo è una storia di terra e di carne, un racconto vivo e sanguinante, un dialogo per una voce narrante che è un impasto di lingue e luoghi con un Tu muto e assente, che si staglia, lontano e gelido, ma vivo in ogni sillaba.
Una voce narrante che erra, tra Gaspara Stampa e James Joyce, il cinema e la cultura pop, in mille luoghi che non sono mai “casa”, vibranti di un sentimento di (non) appartenenza che caratterizza e fa da sfondo al fluire delle immagini, mentre Berlino è un’ombra e Bratislava un faro che si spegne.
Quello che resta addosso è la forza di un dolore che deve essere metabolizzato e trasformato, ritratto attraverso una lingua raffinata e immagini potenti, per non rischiare le lusinghe di una igienica paralisi dei sentimenti. Perché non è forse il nulla una forma di perfezione?

P.S.
Come un’onda nel tempo lo trovate qui, sul sito dell'editore, Eretica Edizioni.

N.d.A
I corsivi sono tratti dal Come un’onda nel tempo.




giovedì 11 febbraio 2016

Grazie Maestro.


Volevo dire solo questo.
Che il Maestro Ezio Bosso ieri ha messo un punto fermo che io sono sicura abbia cambiato qualcosa nella storia della televisione e nel cervello di 10 milioni di italiani.
Noi non siamo la nostra malattia, mai.
"Malato" è solo una delle tante caratteristiche che possiamo attribuirci, come "biondo", "grasso", "paziente".
Parole vuote, che non descrivono che qualcosa di molto superficiale.
Lo fanno spesso, ahimè, le parole.
Andare in televisione, davanti a milioni di persone, con il coraggio di non farsi appiattire dietro una parola sterile, è una cosa pazzesca.
Rendersi un modello desiderabile di vita, nonostante una parola che è un marchio d'infamia, perché la malattia è qualcosa che ci fa una paura fottuta, come qualsiasi forma di non omologazione al modello di ariana perfezione che ancora abbiamo stampato nel cervello, è un atto di rivoluzione di una bellezza straordinaria.
Grazie, Maestro.
Per essere così bello. E per averci fatto vedere che sì, l'Arte può salvare il mondo.
Grazie a nome di tutti i malati, nel corpo o nell'anima, i grassi, i neri, i froci...
Grazie per tutti i diversi che amano forte la Vita, nonostante tutto.

* foto da Tvblog.com

mercoledì 10 febbraio 2016

Sanremo, viva l'Italia.


Evvai che è iniziato Sanremo!
Il meraviglioso baraccone supertrash che celebra quanto di peggio (a volte anche di meglio, però) il Paese possa offrire, è partito.
Voi lo sapete, per me Sanremo è come il Natale. Anzi, ormai molto di più.
Non mi sono mai nascosta: a me piacciono i riti, amo i grandi spettacoli e invidio agli americani da sempre la straordinaria capacità di incorniciare e celebrare gli eventi.
Celebrare. Non c'è un verbo migliore.
Massimo rispetto per gli amanti del sobrio silenzio e del minimale a tutti i costi.
Il fatto che ci sia un programma televisivo che è un vero e proprio evento, che ancora tiene davanti allo schermo la metà della popolazione, domina i media e accende il gossip, che emoziona (almeno chi ci va) e mette, comunque vada, un punto fermo nella carriera di un artista, per me è sempre straordinario.
E poi l'ho capito molto bene ieri.
Ero con la mia piccola amica Aurora, 8 anni, davanti alla TV e guardavamo quella splendida carrellata di vincitori dalla prima edizione ad oggi. Lei sgranava gli occhi e commentava: "ma perché si vede in bianco e nero? Ma guarda come muovevano le braccia per cantare! Ma che capelli avevano?". E sì. Sanremo racconta una storia, che volente o meno, è la nostra.
Una microstoria, forse. Quella del costume e delle parole d'amore. Ma quanta vita passa fra quegli abiti e quei ritornelli sdolcinati.

Finito il panegirico vi dirò che ieri non ho salvato quasi nulla. Ma che importa?
Le canzoni mi sembrano tutte brutte.
Arisa con il maglioncino del club dello knitting, Debora Iurato che fa delle facce improponibili, Madalina Ghenea travestita da Moira Orfei, Garko che sembra uno spot per la salvaguardia dei bambolotti (che con la minaccia del mostro del gender, in effetti, il bisogno c'è!), Aldo-Giovanni e Co. noiosissimi, Conti che è la cosa più oscena che il paese abbia proposto dopo Matteo Renzi ma comunque prima di Berlusconi, ritmo inesistente, autori da mandare al rogo.

Salvo quegli splendidi nastrini rainbow, la bellezza eterna di Andy dei Bluvertigo e del suo completo color pavone (perfetto, da sempre e per sempre), Elton che è un artista semplicemente immenso (se non siete mai stati ad un suo concerto rimediate, perché è uno spettacolo pazzesco e perché ormai ci è rimasto solo lui), l'omaggio a Bowie, più che doverosissimo, e la pubblicità dei mutui dell'Unicredit, che mi è sembrata interessante, la proposta, non lo spot in sé.

Simbolo della serata: Laurona Pausini. Che credo somigli in modo eccellente all'italiano contemporaneo: un po' troppo accento, una bellezza che si aggiusta bene con il trucco, abito improponibile ma pur sempre dal taglio sartoriale, urla come una matta parole di una banalità assordante piene di buoni sentimenti di facile smercio.
Sua anche la frase più politica di tutta la serata, semplice, d'effetto, sufficientemente priva di senso: se siamo simili siamo tutti uguali e dobbiamo proteggerci e non dividerci.

Viva l'Italia.
Viva Sanremo.
E dai, che stasera arriva Patti Pravo.





venerdì 29 gennaio 2016

Galliano e Margiela, lezione d'arte e di futuro.

A volte ho dei momenti di chiarezza così lucidi. Attimi in cui la verità si svela e riesco a cogliere un lampo del futuro.
Mi è successo un paio di giorni fa vedendo sfilare la collezioni di haute couture di John Galliano per la Maison Margiela.
Misero chi guardando un abito vede solo un abito, magari anche difficile da portare.
Ormai lo sapete, quando parliamo di Galliano parliamo di un artista e un visionario vero. Un uomo capace di mettere dentro un solo vestito la Storia e una storia.
Che invidia ho sempre provato per gli artisti figurativi. Per chi sa condensare in un immagine milioni di parole. Mentre io devo stare qui a battere su una tastiera concetti e lettere dannatamente imperfetti.
Quando basterebbero una cascata di stelle che cadono sugli occhi di una fata dai lunghi capelli arancioni, bocche disegnate sulla gola muta, broccati antichi che prendono vita e forma da un bomber oversize, dettagli che sono gioielli incastonati nelle cinture come medaglie al valore, fulmini che irrompono sul bianco immacolato di tailleur che sembrano tagliati con il laser.
Ma questa è mera descrizione. E la meraviglia non si descrive.
Ogni abito è diverso dall'altro in un dialogo che è insieme schizofrenico quanto estremamente coerente. Un po' come la vita.
Galliano parla della sua storia personale e di quella della Maison che guida, ma allo stesso tempo parla di noi e a noi.
Di un futuro che non può mai prescindere dalla conoscenza del sé più profondo.
Perché se sulla sua passerella sembrano sfilare alieni avveniristici, queste creature mitiche sembrano somigliarci parecchio. Hanno addosso abiti rivoltati dall'interno...come se le loro anime fatte di camicie sartoriali e tessuti barocchi, o di quella brutta maglietta a righe che conserva ancora l'odore dell'abbraccio di tuo padre, le avessero tatuate dentro le viscere, e le esibissero, perché si rinasce ogni giorno, è vero, ma rielaborando pezzi di ciò che siamo stati. Da lì non si sfugge.
Nulla si crea e nulla si distrugge, è la lezione che John continua a darci, con estrema precisione, tenendo i fili della storia come un abilissimo narratore, in questo racconto d'arte che a suo modo è anche un thriller, capace di tenerci con il fiato sospeso fino al prossimo capitolo.
Potrei parlarne per ore...
Dei colori, di Bowie che vive in ogni passo, della Piaf che, eterna, canta.
Di quella assenza alla fine della sfilata, che ormai lo sai, ma fa un po' male ogni volta.
Della grandezza di Pat McGrath che Raffaello toglie il cappello ogni volta che la vede.
Di Alexis Roche, che oltre ad essere un uomo di una bellezza e una gentilezza che non sono di questo mondo, è un artista vero. E al quale per tanti motivi che non starò a dire, dobbiamo l'Arte quanto la Vita di John Galliano.
Ma le parole sono solo parole.
Quello che vorrei è che un giorno venisse dato a quelli come John Galliano, non sono molti, il posto nella storia che meritano.
Quello dei grandi artisti che hanno disegnato il mondo.

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